Essere o non essere? Questo è un enologo.
inserito da Alessandra Biondi Bartolini- feed di questo blog
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Allora decido di andare a trovare gli enologi del Gruppo Matura ad Empoli, per parlare con loro, Attilio Pagli, Valentino Ciarla, Laura Zuddas, Leonardo Conti, Goffredo Agostini e Emiliano Falsini, (a completare il gruppo mancano solo Alberto Antonini, Giacomo Cesari e Francesco Bartoletti) della figura dell’enologo, di cosa facciano i professionisti tecnici del vino, e vi dirò anzitutto che sono essenzialmente persone normali, uomini e donne, che semplicemente fanno il loro lavoro e che lo amano molto. Loro poi, che hanno scelto di creare un gruppo nel quale ognuno porta le proprie esperienze utili a far crescere la professione e le conoscenze di tutti, si ritrovano, discutono e assaggiano (prima che io arrivassi ad esempio hanno degustato insieme 13 bollicine italiane di regioni e vitigni diversi).
Questa volta tentano di dare delle risposte a una giornalista-blogger che però alcuni di loro conoscevano come collega e che più che chiedere interviene e alla fine quella che doveva essere un’intervista abbastanza marzulliana, si trasforma in una seduta di gruppo che potrebbe far pensare a un flusso di coscienza nato dalla penna di James Joice. La prima risposta alla domanda per cui ero arrivata qui (cosa fa un enologo?) la dà Valentino Ciarla ed è che un enologo si fa un sacco di domande su cosa dovrebbe fare un enologo. E in realtà è di questo che alla fine discutiamo di cosa sia cambiato e di come cambierà la loro professione, di come vengano percepiti e se in questa perdita di credibilità e accuse nella maggior parte immotivate e soprattutto mal poste, che viene soprattutto dal mondo dei vini naturali anche loro (come categoria professionale ovviamente) o qualcuno di loro non abbia avuto in passato delle responsabilità. E riflettiamo anche su quello che di buono un movimento di rottura proprio come quello dei vini naturali potrà portare nel mondo dell’enologia e nei futuri professionisti del vino (gli enologi ma anche perché no gli agronomi).
La bellezza e la passione
Abbiamo parlato della bellezza della loro professione che poi è l’ultima domanda che ho fatto loro ma che li mette tutti assolutamente d’accordo, perché fare l’enologo è fondamentalmente molto bello, perché per Attilio Pagli ti permette di lavorare con una materia in continuo divenire e non ti fa mai alzare la mattina senza la voglia di andare a lavorare, perché per Goffredo Agostini ti porta in mezzo a paesaggi bellissimi e ti fa percorrere d’un fiato anche 400 km per le strade del Sud Italia senza stancarti mai (e non credo che chi passa lo stesso tempo in Tangenziale Ovest possa dire la stessa cosa) e per Laura Zuddas ti fa conoscere le persone legate all’agricoltura, che sono spesso menti finissime e grandi osservatori, con storie a volte straordinarie. Perché fare l’enologo è un lavoro ma è anche tanta passione. E menomale che di questo ne abbiamo parlato alla fine perché se andavano avanti quasi quasi mi facevano tornare la voglia di fare l’enologo.
Una storia di accuse
Ma cominciamo dall’inizio. Questo per chi svolge questa professione è un momento di difficoltà e anche di rottura, non lo nega nessuno ma quando è cominciato? Laura Zuddas racconta: “Prendo spunto da un episodio reale, nell’estate del 2015 in una manifestazione sui vini naturali, dove ero presente senza essermi qualificata (e che mi guardai bene di fare), mi trovai di fronte a un produttore che letteralmente pontificava con veemenza - e devo dire anche con un certo pregiudizio - contro gli enologi, accusandoli di essere manipolatori, omologatori, e via con la solita storia delle polverine e dei trattamenti (con esempi poi sulle tecniche di filtrazione sterile che facevano trapelare un’assoluta ignoranza su quello di cui stava parlando). Personalmente ai vini naturali guardo con grande rispetto e interesse, ma accuse come quelle che sentii in quell’occasione non sono accettabili se il principio che le muove è l’ignoranza, non solo della tecnica ma anche delle regole, se dietro a loro c’è un movimento che cerca il massimo risultato con il minimo sforzo (o investimento), negando il ruolo invece fondamentale della conoscenza. E attualmente non si può prescindere dal ruolo, la conoscenza, lo spessore dell’enologo dal momento che, al di là del suo aspetto edonistico, il vino è una matrice alimentare e quindi si parla anche di salubrità, metalli, ocratossine, allergeni, ammine biogene e anche di acidità volatile che sembra diventata un vanto a chi ce l’ha più alta. Gli aspetti che si sfiorano nell’ignorare tutto questo - continua Laura - comportano dei rischi per tutta l’immagine del mondo del vino e non si può certo prescindere da una figura competente che sappia di chimica, di microbiologia, di normativa vitivinicola. Tutte competenze che devono assolutamente affiancare anche la vinificazione naturale quando i viticoltori ci sottopongono questa stimolante sfida ma dalle quali non si può prescindere”.
Come è cominciata non lo saprei
Questa è la situazione infatti, a chi non è successo di persona o sui social quello che Laura racconta? Ma quale possa essere stato il punto di rottura, il momento in cui si è creato il disammoramento non è chiaro, ed è Attilio Pagli, il più maturo a Matura, quello che ha fondato l’idea e la struttura e che ha sulle spalle più anni di esperienza a provare a tracciare una storia:
“se dovessi dire dove inizia il discredito e l’attacco alla figura degli enologi non saprei. La causa negli anni è stato un eccesso nella spinta tecnologica? Potrebbe essere. Oggi però sembra che l’eccesso spinga sul lato opposto, di un non interventismo dogmatico e sinceramente entrambe questi approcci mi sembrano sbagliati. L’enologo è stato colui che a partire dagli anni ’80 ha preso su sé una situazione che soprattutto dal punto di vista qualitativo e di mercato era a dir poco drammatica. Quando cominciai a lavorare nel 1983 nelle cantine del Chianti Classico trovavo vasche di vino del 1975 non imbottigliato perché non si vendeva. La situazione non era facile sotto tutti i punti di vista e allora un po’ sulla base delle esperienze o degli studi e un po’ purtroppo talvolta scimmiottando chi in quel momento era al centro del successo, cioè Bordeaux, abbiamo cercato di tirare fuori dei vini più consoni a un mercato che stava cambiando nelle sue richieste. In questo sicuramente però c’è stata anche la responsabilità della stampa che premiava determinati tipi di vini e quindi tutti, produttori ed enologi, in qualche modo cercavano di andare in quella direzione”.
È sempre così che avviene nei momenti di crisi, per uscirne all’inizio si sceglie la via più semplice, per chi produce e per chi acquista, è dopo quando si è acquisita la stabilità, che occorre costruire, ma costruire non demolire.
“Quella che fu scelta - continua Attilio - era anche la direzione più semplice, perché dai vini che non si vendevano più, spesso con difetti, acidi, senza struttura, la cosa più semplice (per far percepire il miglioramento) era cercare la concentrazione, la struttura, il colore. Poi però negli anni il mondo del vino è cresciuto e questa strada, che aveva portato spesso a vini eccessivamente concentrati, a un uso poco razionale del legno e a vini pesanti o difficili da bere, spesso privi di una loro riconoscibilità, già da qualche anno, anche da parte di noi enologi, sta vivendo un ripensamento nel modo di fare vino.”
Faccio una nota per i non addetti ai lavori prima che parta il can can sugli interventi impattanti: quando un enologo parla di concentrazione non si sta riferendo all’uso dei concentratori, parla di vinificazione di uve la cui maturazione è stata ottenuta in vigneto, di scelta di cloni, di basse produzioni, di polifenoli, colore e tannini. Per riprendere il discorso di Pagli, oggi di nuovo con un paese e un settore in crisi cosa succede invece?
“Dagli errori che si erano fatti nel passato l’impressione è che oggi si vada però nella direzione opposta probabilmente continuando a fare altri errori, perché se è vero che un eccessivo intervento dell’uomo può essere in qualche modo deleterio, allo stesso tempo un eccesso di non intervento può essere anche peggio. Perché in fondo, ricordiamolo, il vino non si fa da sé, richiede degli interventi che prevedono delle scelte, in vigneto e in cantina, con una serie di interventi che, fatti in un modo o in un altro (ma pur sempre fatti), cambiano completamente quello che cuci. E l’enologo deve essere lì, come il sarto, a cucire nel modo migliore possibile un il vestito su un modello che il produttore ha scelto.
Quello che oggi sta succedendo è come nel passato, una reazione per uscire da una crisi in un modo che adesso ci sembra facile ma probabilmente non porterà a nessun risultato".
E fondamentalmente non si può che essere d’accordo, c’è stata una sopravvalutazione dei vini “da critica”, che volevano i produttori per vendere meglio (e ne parliamo più avanti ma ricordiamoci che il vino e la responsabilità di come è e come non è sono sue, non dell’enologo, se ti metti un abito verde, giallo e viola assolutamente inguardabile, la colpa non è del sarto) ma che proponevano anche gli enologi per accrescere la loro fama..perchè non è forse vero quello che osserva Emiliano Falsini che, negli anni passati, gli enologi si siano un po’ troppo “allargati” (come fanno del resto gli chef, o gli architetti)?
“Sicuramente lavoriamo in modo molto diverso da come avveniva 20 anni fa, e uno degli errori fatti in passato è stato di esaltare spesso in maniera eccessiva la stessa figura dell’enologo, anteponendola a quello che è il valore dell’azienda. Personalmente” continua “ritengo che da parte di noi professionisti, anche il movimento dei vini naturali debba essere visto come uno stimolo, un germe che possa dare qualcosa di interessante, un punto di rottura. Far finta di niente è sbagliato. Non sono vini che nella maggior parte dei casi apprezzo ma sono convinto che non si tratti di un movimento folle sconsiderato e che anzi, probabilmente, e io me lo auguro, sarà quello che tra 10 anni cambierà il nostro approccio al vino anche nell’abbattimento di alcuni vincoli che oggi ci costringono in stili che cominciano a stare stretti a molti.”
I vincoli di cui si parla sono quelli analitici e delle commissioni di degustazione imposti dai disciplinari DOC e DOCG (che attenzione non sono limiti legali che, indipendentemente dallo stile di vino, dal consulente o non consulente e così via, si devono o si dovrebbero rispettare) che in alcuni casi non approvano o impongono il declassamento di vini che pur equilibrati e apprezzabili non rientrano in parametri ritenuti tipici anni fa e che non rappresentano più stili diversi da quelli più “canonici”. “E allora - aggiunge Falsini - ben venga la DOC Sicilia che ha aggiunto tra le tipologie ammesse anche il Grillo macerato, perché chi l’ha mai detto che per la Sicilia la tipicità debba per norma essere quella dei bianchi fatti con il freddo?” (e ammettiamo che anche in termini di logica più che di tecnologia la tesi del freddo in Sicilia difficilmente potrebbe essere considerata come la più tradizionale).
C’è vino e vino e tutti vanno fatti bene
Ma naturalmente, anche l’intervento dell’enologo, le scelte delle tecniche da applicare o delle correzioni da fare (perché a volte delle correzioni si fanno, si possono fare e non è peccato) dipendono dai vini, dal loro valore, dai volumi, dal cliente e da quello che vuole. Perché adesso ci torniamo all’azienda e al produttore e su questo i “Matura” sono tutti d’accordo: il vino è suo, l’enologo è un consulente e cioè uno strumento al suo servizio (il sarto di prima cioè). Se l’obiettivo del produttore è di fare un vino che vende milioni di bottiglie per un mercato estero l’enologo lavorerà per quello, se vuole fare un vino naturale ci si può lavorare, ma l’obiettivo deve restare quello di fare un prodotto piacevole, corretto e apprezzabile nel suo mercato di riferimento.
Goffredo Agostini spiega così il suo approccio: “Noi siamo nati con una preparazione che ci diceva che da un lato c’erano i pregi e dall’altro i difetti e adesso a volte anche noi ci troviamo in difficoltà di fronte a produttori che ci chiedono di aiutarli a seguire la via dei vini naturali, spesso per recuperare certe quote di un mercato nel quale non hanno ben chiaro fino a dove potersi spingere anche in alcune lievi “imperfezioni. E allora se per me determinate caratteristiche sono dei difetti e so che si accentueranno in bottiglia, non posso esimermi dall’avvertire un cliente che si sta esponendo a dei rischi. Ecco, il nostro ruolo è quello di mettere i produttori sull’avviso di quello a cui vanno incontro.”
"Capita che un produttore chieda di fare un vino che esce dallo schema “classico” - aggiunge Leonardo Conti - “e a quel punto è nostro compito anche quello di dirgli se il suo ambiente di coltivazione, le condizioni della sua cantina e anche i suoi canali di mercato siano più o meno adatti. Se in Maremma mi chiedono di fare un vino bianco senza solfiti, più che metterli solo di fronte alle varie possibilità tecniche che si aprono, gli devo anche fare ben presente che andando in quella direzione esce completamente dagli schemi della sua regione e di quello che ha fatto fino a quel momento e poi se non ha un mercato in grado di recepire il suo prodotto, rischia di rimanere con la bottiglia in mano. Però se vuole intraprendere un percorso nella direzione dei vini naturali e senza solfiti posso consigliargli invece di fare un vino rosso che resti nell’ambito dell’identità della sua azienda e del suo territorio.”
E l’enologo è colui che può spiegare alle aziende che cosa possono e non possono fare mantenendo, ricordiamolo bene, la loro sostenibilità economica perché fare vino (e di questo un consulente ha la responsabilità di ricordarlo ai suoi clienti) è e resta un’attività produttiva. Bella e affascinante ma pur sempre la produzione di qualcosa che poi a qualcuno dovrà piacere e dovrà essere venduto.
Niente miracoli e prometterli non vale
“Nella consulenza che facciamo - esordisce Valentino Ciarla - dobbiamo anche dare un senso economico alle scelte e ai progetti che realizziamo con le aziende, non possiamo essere solo coloro che conoscono la chimica e sanno fare un blend. Le aziende devono prendersi le loro responsabilità e conoscere i propri limiti, perché l’unico enologo che ha fatto miracoli è morto a 33 anni e nessuno dei più bravi, nemmeno Attilio, li sa fare (questa è una frase che con i clienti uso spesso e con successo) - segue applauso di tutti i colleghi – “da parte mia credo che l’enologo oggi abbia il compito di portare nelle aziende un ventaglio di conoscenze a 360° e di scelte non solo tecniche ma anche economiche, perché non bisogna dimenticare che l’obiettivo delle aziende alla fine del mese è quello di vivere del loro lavoro e di pagare gli stipendi dei propri collaboratori. L’enologo deve apportare conoscenze e non decisioni ed è importante che poi siano le aziende a prendersi le responsabilità delle scelte che fanno. In caso contrario si dà all’enologo un ruolo e un potere che a volte i superconsulenti (quelli che i miracoli li promettevano) hanno avuto ma che non ha mai fatto crescere nessuno.”
E il percorso di crescita è quello che gli enologi e le aziende serie hanno fatto insieme, passando da vini più facili da capire fino a vini che valorizzano il territorio, il produttore, il vitigno e oggi anche a vini più originali e fuori dagli schemi, ma sempre senza lasciare indietro tutte le conoscenze che nel tempo si sono acquisite.
Da Botticelli a Fontana il passaggio non è facile (e nemmeno per tutti)
“In fondo è un po’ come nell’arte. Ci sono artisti che arrivano al termine delle loro esperienze a fare dei quadri dove domina il segno, dove hanno smontato tutte le basi sulle quali fino a quel momento avevano costruito i canoni dell’arte. Ma per arrivarci il loro percorso è passato dall’arte figurativa, dalla scuola e tutto quello che era necessario. Se all’inizio della loro carriera disegnavano una mano era una riproduzione fedelissima della realtà ed è solo grazie a quel percorso che a un certo punto arrivano a raffigurare quella stessa mano con due o tre linee. È perché se lo possono permettere e nel vino è un po’ lo stesso. Per evitare la chimica nel vino devi conoscere la chimica, la strada la devi conoscere per trovare scorciatoie e strade diverse. Se fai un vino naturale ma non conosci la strada quale potrà essere il risultato? Per fare un prodotto indimenticabile come un’opera d’arte, devi sapere che cosa stai facendo e che cosa non stai facendo, per cui secondo me l’enologo e le conoscenze ci vogliono più ora che prima.”
Così parla Leonardo Conti e potrebbe fornirci una chiusura perfetta, quasi studiata (e avrete capito che nella nostra intervista di studiato c’era ben poco ma evidentemente a questi “ragazzi” l’ispirazione non manca). Potevamo davvero chiudere qui se non che (e l’ho imparato quest’estate quando ho avuto l’occasione di intervistare Michel Rolland) gli enologi di esperienza sono persone eccezionalmente pratiche o pragmatiche (è un aggettivo che uso tantissimo e che piace molto applicare anche al mio modo di vedere il mondo) e la chiusura e il commento alla metafora dell’arte non può spettare che ad Attilio Pagli, che sottolinea che "non esiste un vino ma tanti vini e che chi compra e apprezza la maggior parte di essi, i milioni di bottiglie che si vendono sui mercati di tutto il mondo, non è pronto per i tagli di Lucio Fontana..”
Per un produttore che fa milioni di bottiglie o anche per marchi che superano le poche centinaia di migliaia di bottiglie il mercato non è pronto a superare l’arte figurativa” Meglio restare a bellissimi peasaggi o a copie del Botticelli allora, forse le avanguardie non sono per tutti?
“Si parla di nicchie e il piccolo produttore che fa il macerato lo posso considerare un argomento di pensiero, quasi una ricerca personale, quello che mi preoccupa è che ci sono aziende sempre più grandi che cercano di andar dietro a questi modelli perché sono diventati quelli più seguiti dalla critica e secondo me si faranno del male, perché nel mercato non c’è più tanto spazio per gli errori”.
E come dargli torto? In fondo c’è spazio per tutti, milioni di visitatori frequentano i musei per vedere Botticelli e lo ameranno sempre e allo stesso tempo ci sono cultori pronti a spendere tantissimo per un Fontana. Ma a fare qualche taglio su una tela non si diventa artisti, non si vendono quadri e nemmeno si impara da soli a dipingere.
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